“Il museo delle penultime cose” di Massimiliano Boni è uno splendido romanzo in cui s’immagina l’esistenza di un ultimo sopravvissuto alla Shoah nella Roma del 2030. Una storia sul valore della memoria contro l’eterno ritorno di negazionismo e revisionismo
Un romanzo magnetico e magnifico, di quelli la cui lettura si rallenta drasticamente alla fine, perché non è facile il distacco da un mondo narrativo in cui ci si immerge totalmente, e da dinamiche e da personaggi che diventano familiari. L’ha scritto, dopo averlo a lungo meditato, Massimiliano Boni, che aveva esordito con Giuntina, scrivendo La parola ritrovata undici anni fa, e che adesso è tornato al romanzo. Il suo Il museo delle penultime cose (373 pagine, 18 euro) contribuisce a un circolo virtuoso di autori italiani proposti di recente dalla casa editrice 66than2nd, il cui catalogo abbonda di importanti libri di autori stranieri, ma che ha deciso di dare spazio anche a scrittori nostrani, come il brillante Fabrizio Patriarca (Tokyo transit).
L’Italia del 2030, tutt’altro che felice
Boni immagina l’Italia, e in particolare la Roma del 2030. L’ex premier Matteo Renzi – imbolsito e ingrigito – è sempre sulla breccia, anche se perde il ballottaggio elettorale con lo sfidante Cacciani, che inaugura una stagione nuova, quella di un Piano nazionale della Felicità. È un’Italia tutt’altro che felice, però, in cui s’infittiscono, torvi, piccoli e grandi atti di antisemitismo, un’Italia vicina a quella odierna e ben descritta dalle parole di Mario, figlio di partigiani, direttore del Museo della Shoah ospitato a Villa Torlonia (nel presente non ancora realizzato): «Un paese che aveva paura del domani, in cui la felicità era solo uno slogan […] in cui la scuola non serviva più a educare; in cui troppi giovani crescevano senza radici, esposti al vento della dimenticanza»
Lo studioso e il sopravvissuto
L’ebreo Pacifico Lattes – uno dei due protagonisti de Il museo delle penultime cose – è uno studioso della Shoah, vicedirettore del Museo, che s’imbatte nella possibilità che un ultimo sopravvissuto in età avanzatissima, sconosciuto a lui e all’opinione pubblica, sia sfuggito al suo lavoro, il lavoro di una vita: lui ha ricostruito le vite dei deportati italiani prima dell’ultimo viaggio, ha gelosamente raccolto le loro memorie e ricostruito i loro alberi genealogici, ma non è mai stato a vedere ciò che resta dei campi di concentramento. Qualcuno mette in crisi le sue certezze e riaccende certi suoi tormenti. Attilio Amati – quello che sembra essere l’ultimo sopravvissuto italiano della Shoah, dopo la segnalazione di un parroco, don Riccardo – vive in un ospizio a Tor Sapienza e ha sigillato il proprio passato con un macigno, ha ricordi immersi nel buio, ma chiede un funerale ebraico per quando giungerà la sua ora. Agli occhi di Pacifico è come «un animale preistorico, sopravvissuto a qualche glaciazione».
Una lotta
Fra i due s’instaura un rapporto complesso, anche una lotta: lo studioso va a caccia di ogni minimo indizio sul mistero di un individuo che non è presente in nessun registro delle vittime della Shoah, in ogni continente, l’anziano lotta con i fantasmi del passato, vorrebbe svelarsi ma non ci riesce pienamente. Pacifico prova a superare il suo stesso scetticismo e a decifrare ogni minuzia per conquistare la fiducia dell’altro, Attilio si ritrae, caustico, confuso, malato e deciso a covare fino all’ultimo i propri dolorosi segreti. La svolta del plot arriverà dopo una morte violenta e il ferimento di Elia, figlioletto di Pacifico, ma il cuore del romanzo è presente quasi in ogni pagina: il passato che non ha insegnato nulla, l’importanza e il valore della memoria nel futuro prossimo, in cui mancheranno testimoni oculari e diretti del genocidio della Shoah, per fronteggiare l’eterno ritorno di negazionismo e revisionismo.