David Toscana, con “La città che il diavolo si portò via”, regala uno sguardo sudamericano sulle ferite dell’Europa, attraverso la storia di alcuni strampalati compagni di bevute, alle prese con vari episodi grotteschi, in una terra distrutta dal nazismo e prossima a finire sotto il giogo comunista
Se la produzione del pluripremiato scrittore messicano David Toscana fosse complessivamente al livello della sua più recente prova, tradotta anche in italiano, le edizioni Gran Via – bella realtà indipendente – avrebbero fatto un colpaccio, con un autore di valore e di enormi potenzialità, relativamente giovane (classe 1961), che può dire ancora la sua per molto tempo. Se, invece, La città che il diavolo si portò via (283 pagine, 16 euro) – nella versione di Stefania Marinoni, giovane allieva dell’ispanista Ilide Carmignani – dovesse essere un “unicum” che spicca e che non regge il confronto col resto del catalogo di Toscana, la raffinata casa umbra, con sede a Narni, si sarebbe e avrebbe comunque regalato un bel gioiello.
Pietas e humour nero vanno a braccetto
Più di qualche anno fa Toscana ha fatto capolino più o meno inosservato nelle nostre librerie, per i tipi degli Editori Riuniti, con L’ultimo lettore, un romanzo dall’avvio giallo, con risvolti metaletterari. La città che il diavolo si portò via ha un’architettura più ambiziosa, un taglio più surreale, una maturità stilistica evidente e – last but non least – il merito di fondere una sensibilità e uno sguardo latinoamericani (non cavilliamo troppo sul fatto che il Messico è in Centro America…) con le ferite dell’Europa e, in particolare, della seconda guerra mondiale. E non poco c’entra il fatto che l’autore si sia trasferito e risieda proprio nella capitale polacca, dove ha ambientato questo volume, in cui poco importano realtà e finzione, possibile e impossibile, assurdità e normalità, e in cui pietas e humour nero vanno a braccetto.
La speranza tra le rovine
La città che il diavolo si portò via è un romanzo ad alta gradazione alcolica – fame, freddo, paura e illusioni così si sopportano meglio – che si apre al cimitero Powazki di Varsavia, città svuotata e dilaniata nel secondo dopoguerra, città che è un enorme camposanto di troppi morti e di tanti morti viventi – metafora di altri dilaniati pezzi di mondo, archetipo di ogni luogo in cui la bellezza sembra perduta – tra le cui rovine però è possibile scorgere speranza. Lì ci sono quattro amici scampati agli orrori della seconda guerra mondiale, quattro non più giovani sopravvissuti che devono capire bene cosa fare nella vita che gli resta: il becchino Ludwik, il sacerdote Eugeniusz, l’aspirante bidello o astronomo Kazimierz e Feliks, commerciante dal volto innocente, che non gli impedirà di essere anche arrestato; e assieme a loro una pletora di figure minori, ma non meno intense, da Olga, la moglie di Feliks, a un barbiere con una gamba di legno, a un uomo che vende palloncini, a uno scrittore, presenza metaromanzesca.
Sognatori contro noia e malinconia
I quattro si sono miracolosamente salvati all’orrore hitleriano e devono fare i conti col nuovo governo comunista della città. Sono strampalati compagni di bevute («L’alcol deprime quando sei solo e invoca la nostalgia quando si beve in coppia. Dai tre in poi arriva l’euforia»), eroi della sopravvivenza, mezzi falliti, quasi fantasmi, sognatori in lotta contro la noia e la monotonia. Tutte le volte che possono non perdono l’occasione per farsi un bicchierino e spesso, nelle loro vita, sbronza e felicità sono sinonimi. Hanno di che rallegrarsi: «Erano sopravvissuti a un’esecuzione – si legge – ai bombardamenti. Guerre, epidemie e prigione. Al vaiolo, al transito dei tram. Alle spine di pesce. Ai proiettili vaganti. Al passare degli anni. Alla mano di dio e ai capricci del diavolo. Ai mariti gelosi. Alle amanti ingannate. Alle acque della Vistola. All’alcol contraffatto. Alle correnti elettriche. Alla polmonite, alla tentazione del suicidio. All’essere scambiati per ebrei. Al tetano e alla meningite. Alla prostata e agli assassini. Erano sopravvissuti alla città capitale della morte».
La meraviglia di restare umani
Le storie, le bizzarre coincidenze e gli episodi gustosi e spesso grotteschi che si susseguono in brevi capitoli, e hanno come protagonisti i quattro amici, sono una celebrazione della vita in mezzo alla distruzione, nonostante tutto, la ricostruzione di una capitale dall’anima lacerata, che passava però dal giogo nazista a quello sovietico. A suo modo questo romanzo è anche un inno al coraggio e alla meraviglia di restare umani, al desiderio di essere immortali, perfino un inno a un «dio, non quello che castiga o perdona, non il padre o il figlio, non quello che distrugge popoli o manda epidemie, non quello su cui si dicono tante sciocchezze, ma quello dei cieli e della terra, della luce e delle tenebre, il dio della mattina e della sera del giorno prima». Una mezza preghiera se non laica, di sicuro etilica.