Le lettere del dio dei lettori e degli scrittori, raccolte a un secolo dalla sua nascita, restituiscono ciò che risuona nei suoi libri. Lei è amabile o dispotica, senza nessuna finzione
Elsa Morante è il dio degli scrittori e dei lettori, una delle prove dell’esistenza di Dio. Il mondo che le risultava intollerabile e ogni giorno più degradato, specie negli ultimi anni della vita, lo è stato ancor di più dopo la sua scomparsa, nell’impossibilità di avere altri suoi libri. A cent’anni dalla sua nascita sono arrivati due regali postumi: la pubblicazione de L’amata. Lettere di e a Elsa Morante (686 pagine, 30 euro) per Einaudi e la prima rappresentazione a Torino, lo scorso gennaio, de La serata a Colono, unico suo testo teatrale (in una lettera Gassman le chiede, deferente, di poterlo mettere in scena), variazione lisergica – intessuta di rimandi e citazioni – del mito di Edipo, con Cecchi protagonista, musiche di Piovani e regia di Martone.
Un regalo dall’aldilà
“L’amata”, al di là della mancata esaustività – è una parte dell’epistolario morantiano, curato dal nipote Daniele, in collaborazione con Giuliana Zagra – del valore strettamente filologico e della platea (ampia, di non specialisti) a cui è potenzialmente destinato, restituisce intatta la voce dell’autrice, quella che risuona nei suoi libri. E dà voce a molti dei corrispondenti che, lungo quasi cinque decenni, le scrivevano abitualmente o episodicamente, magari dopo la pubblicazione dei suoi libri (all’inizio degli anni Ottanta, per dire, c’erano tredicenni che scrivevano alla Morante, oggi – a parte che non c’è Morante – è impensabile che scrittori abbiano qualcosa da dire, magari rispondendo ad adolescenti che scrivono lettere, anche visto che a stento digitano sms…). Questo mattone bianco, pubblicato fuori collana dallo Struzzo, è una specie di regalo dall’aldilà e fa scoprire qualcosa di Elsa anche oltre i suoi libri, in piccoli scrigni, lettere bellissime, da leggere e rileggere. Non ci sono maschere, né finzioni, Morante non scriveva lettere per farle leggere ai posteri, ed è amabile o dispotica senza infingimento alcuno.
Umile e fiera, autentica ed esigente
Le sue lettere (ci sono anche un buon numero di minute, non spedite, e altre firmate con i nomi dei suoi gatti) sono come era lei: autentiche e molto esigenti, forti e fragili, incapaci di costeggiare anche fuggevolmente la banalità, in modo intransigente sincere e mai ipocrite, generose, umili e fiere, appassionate, allegre e dolenti, di un fascino malinconico: non quelle che la raccontano giovanissima, in ristrettezze economiche e impegnata in continui traslochi, ma ancor più quelle ai tempi del successo, delle adulazioni e di attacchi frontali. Certune incantano, altre fanno riflettere. Molte permetterebbero a chi le legge di avere il pudore di non affollare gli scaffali delle librerie di volumi di cui si potrebbe fare a meno. Per dire, Morante, dopo aver pubblicato Menzogna e sortilegio, confessava a Luchino Visconti di non sentirsi ancora scrittrice…
La devozione ai limiti dell’idolatria di cui spesso era circondata non bastò mai alla «regina temibile» Morante, che è possibile seguire grazie alle lettere degli amori (dall’amore giovanile inglese al pittore newyorkese Bill Morrow, passando per lo stesso Visconti) e degli amici (alcuni carteggi che spiccano fra i tanti, con Moravia, con l’amica Luisa Fantini, con l’appassionato giovane inglese Richard T.M., con Pasolini, Calvino, Wilcock, Fofi): dai primi passi nel sottobosco letterario romano al rifiuto, negli ultimi anni, dell’establishment che aveva conquistato; dalla venerazione per Saba, Penna e Landolfi all’ammirazione sconfinata che colleghi, critici e gente comune le tributavano, dalle vacanze ad Anacapri (lontana dal marito Moravia, spesso in viaggio) alla solitudine e alle malattie degli ultimi anni, dal sapere incantare con la scrittura al non saper vivere.
Un filo rosso sentimentale
Il filo rosso delle lettere è di natura sentimentale, il criterio di scelta sembra l’empatia di Morante per coloro con cui intrattenne corrispondenze. Meglio non citare nemmeno una frase, il rischio è indebolirne o magari travisarne la forza impetuosa e la bellezza, la poesia e il dolore. Storie d’amore parallele, amicizie e rotture, consigli agli amici e viaggi che si leggono ne “L’Amata” regalano il volto talvolta arrogante talvolta tremante di un genio, realizzato e felice solo nella scrittura e mai in altri contesti, che lentamente rinunciò alle relazioni sociali, continuando a risuonare solo nei suoi libri. “L’amata”, forse, è la storia di un ragazzo (scrivere “L’isola di Arturo” era come realizzare il «desiderio stravagante di essere un ragazzo») incessantemente impegnato a misurarsi col senso della vita, incapace di salvare se stesso, ma che indicò la via al mondo.