Decalogo per non lasciarsi scappare “Il rumore delle cose che cadono”, il romanzo superbo di un colombiano che omaggia il mito letterario Gabo ma riesce ad emanciparsene completamente
Dieci motivi per scaraventarsi in libreria e impossessarsi (pagando prima, niente espropri proletari, please) de Il rumore delle cose che cadono (282 pagine, 16,80 euro), romanzo del trentanovenne colombiano Juan Gabriel Vàsquez? Sarebbero anche più di dieci, ma lo spazio è tiranno.
Primo motivo: è di gran lunga tra i migliori romanzi editi quest’anno in Italia, una spirale narrativa che s’attorciglia tra presente e passato, e si nutre di padri e figli, colpe e assenze, guerra e pace, odio e amore, disillusione e felicità, cioè della vita che – tra paura e coraggio – si fa letteratura. Non è un caso che Vàsquez, tra i più importanti scrittori del catalogo Ponte alle Grazie, sia finito nella nuova collana dell’editore che quest’anno ha sfiorato il premio Strega con Qualcosa di scritto di Trevi. La collana “Scrittori” si propone programmaticamente di far letteratura: sembra una tautologia leggendaria, ma ai tempi delle librerie-supermarket – fra promozioni selvagge e sgargianti bollini che strillano prezzi stracciati – non c’è nulla di… scontato.
Secondo motivo: a metà romanzo la voce narrante (Antonio Yammara) sente «un netto annullamento del mondo reale, un assoluto rapimento della coscienza»; i lettori lo proveranno dopo poche decine di pagine.
Terzo: i protagonisti siamo tutti noi, sotto mentite spoglie, chi ha perso l’innocenza e cerca la verità, come Maya, bambina diventata adulta con ricordi fittizi sul padre, o Elaine Fritts, partita dagli Usa per fare la volontaria in Colombia e rimasta lì per gran parte della propria vita, o Ricardo Laverde, enigmatico aviatore di mezza età («E come mai un pilota finiva a passare le giornate nelle sale da biliardo del centro di Bogotà buttando i soldi nelle scommesse?») provato da lunghi anni in prigione, o Yammara, tranquillo piccolo-borghese – sposato con Aura, in attesa della prima figlia – invischiato in una storia più grande di lui, che mette in crisi la sua vita e il suo matrimonio. Tutte figure che sprigionano empatia.
Quarto motivo: lo zoo della tenuta di Pablo Escobar, una delle scintille narrative, è la metafora di un paese in guerra per un decennio, la Colombia insanguinata dai narcos, della paura perenne e quotidiana di una remota provincia del mondo, in cui anche un ragazzo che sogna imprese da eroe può finire nel fango e perdere tutto. Quello di Vàsquez è un romanzo che è un mondo intero, su un’amicizia brevissima che diventa indagine ossessiva del passato di una generazione sconfitta.
Quinto motivo: una lingua semplice e sofisticata, dal robusto background letterario, che non cade mai nel manierismo.
Sesto motivo: nati all’ombra del “monumento” Garcìa Màrquez, gli scrittori colombiani hanno cose da dire e un modo diverso per dirle, non scimmiottano il mito (Vàsquez fa un paio di omaggi, inizia un paragrafo del ricordo di un figlio e di suo padre come “Cent’anni di solitudine” – «Molti anni dopo…» – e fa leggere lo stesso romanzo a Elaine) e sanno emanciparsi dalla sua ombra. Vàsquez, come Gamboa, è uno di questi.
Settimo motivo: un realismo così introspettivo e suggestivo non passa inosservato, incensato da Vargas Llosa, premiato con l’Alfaguara 2011, tra 608 manoscritti inediti in castigliano, e presentato sotto pseudonimo, Raul K. Fen. Roba da Romain Gary.
Ottavo motivo: non la storia di un amore – pochi i grandi libri senza – ma due o tre (senza melodrammi o epiloghi hollywodiani), se quella che chiuderebbe il cerchio di due vite devastate non arrivasse tardi.
Nono motivo: nove volte su dieci meglio diffidare dei blurb (e dei professionisti del genere che non ne negano a nessuno), su copertine o quarte di copertina. In questo caso una di queste è firmate da Nicole Krauss, autrice di un capolavoro (La storia dell’amore, Guanda), e dagli ottimi punti di riferimento (Schulz, Bernhard, Sebald, Rilke, Bolaño, Grossman, Bellow, P. Roth, Borges).
Decimo motivo: ci sono frasi così: «Pensare al buio non conviene: le cose sembrano più grandi o più gravi al buio, le malattie più devastanti, la presenza del male più vicina, il disamore più forte, la solitudine più profonda»; o così: «Essere idealisti non significa per forza essere condannati per tutta la vita a decisioni sbagliate: anche gli idealisti a volte ci prendono»; o così: «Non c’è niente di più funesto, di più pericoloso, che speculare o fare congetture sulle strade che non abbiamo preso»; o, ancora, così: «L’esperienza, ciò che chiamiamo esperienza, non è il catalogo dei nostri dolori, ma la simpatia che si impara ad avere per le sofferenze degli altri».
Convinti?