Ne “La grande casa” c’è spazio quattro storie parallele, diverse per spazio e tempo, che si riannodano (anche) nel minimo comun denominatore della memoria, della solitudine e dei segreti. La centralità della memoria nei processi creativi e dell’amore nei momenti difficili sono punti fermi, l’enorme ambizione di sapere cosa resta dopo una catastrofe è appagata.
Nicole Krauss ha la grazia degli scrittori che ama – Schulz, Kafka, Bernhard, Sebald, Bolaño e gli israeliani contemporanei – e conosce l’alchimia del romanzo, per quanti ancora credono in esso ai giorni nostri. Non ha nemmeno quarant’anni questa scrittrice statunitense (negli ultimi secoli gli Usa hanno regalato al mondo qualcosa di fondamentale, a parte schiere di scrittori e libri da leggere e rileggere?), che non ha paura di affrontare con naturalezza e rigore grandi temi, di intrecciare sapientemente trame all’interno di vaste architetture romanzesche, di mettere a nudo sé e ancor più il suo mondo, diluendosi in parte nelle voci dei personaggi – poetici ma autentici – dei suoi libri. Allieva di Josif Brodskij, al college, la Krauss scriveva poesia in gioventù, ma proprio il premio Nobel per la Letteratura la indirizzò alla narrativa. E, ovunque si trovi, merita un ringraziamento.
In Italia la Krauss s’è rivelata con La storia dell’amore, il suo secondo romanzo (dopo L’uomo sulla soglia, l’interlocutorio debutto, in Italia edito successivamente), pubblicato da Guanda e dedicato ai nonni (con tanto di fotografie). Tradotto con successo nei cinque continenti “La storia dell’amore” è uno dei libri fondamentali degli ultimi decenni, per quanto è imbevuto di letteratura e per quanto riesce a rinnovarla, oltre che per le due magnifiche figure che lo animano, l’anziano Leo Gursky e la piccola Alma Singer, e la struggente storia che racconta.
Incomunicabilità e sentimenti irrisolti
Il nuovo romanzo di Nicole Krauss, La grande casa (335 pagine, 18 euro), dedicato ai due figli, pubblicato come sempre da Guanda, è un piccolo miracolo di bella scrittura e stile, che in patria ha raccolto consensi di critica e conquistato nuovi lettori, rincarando l’aura glam all’autrice, già al centro dei gossip letterari a stelle e strisce, dopo il matrimonio con Jonathan Safran Foer, altro astro nascente della scrittura. Quattro storie parallele, diverse per spazio e tempo, si riannodano nel minimo comun denominatore della memoria, della solitudine, dell’incomunicabilità, dei segreti e dei sentimenti irrisolti: quelli, a Gerusalemme, del rapporto tra un padre, Aaron, e uno dei suoi due figli, Dov (militare, ma anche scrittore di storie senza lettori) fatto di frasi non dette, di parole vere e meravigliose solo pensate, mai esplicitate – pagine degne di Oz e Grossman; quelli, a New York, di Nadia, una scrittrice, e di un poeta cileno che gli lascia una grossa scrivania (il filo rosso del romanzo, con diciannove cassetti, uno dei quali non si può aprire), forse appartenuta a Garcia Lorca, prima di tornare in patria dove sarà inghiottito e torturato dal regime di Pinochet; quelli tra un famoso antiquario e i suoi figli Leah e Yoav, studenti a Oxford; quelli di un professore inglese e della moglie, una tedesca sfuggita alla Shoah, che riceverà Daniel Varsky, lo stesso poeta cileno amico di Nadia.
Bisogno di capire e farsi capire
Tutti i personaggi de La grande casa hanno un bisogno enorme di capirsi e farsi capire, sono artisti, professionisti benestanti, ma hanno in corpo e in cuore le idiosincrasie di chiunque. A ciascuna delle quattro voci la Krauss dedica due lunghi capitoli, nei quali si dipanano, tra passato e presente, interrogativi e risposte, smarrimenti, sensi di perdita, insoddisfazioni e dubbi. Dubbi che sembrano propri della cultura ebraica nella quale la Krauss è immersa – senza essere religiosa in senso stretto. Alla fine emerge un’unica storia che intreccia quattro destini, in una capacità combinatoria che con i suoi rimandi non squassa il plot, anzi.
La centralità della memoria e dell’amore
La scrittura è elegante, l’alone di mistero che emerge dalle pagine notevole, il risultato finale è magnifico, la centralità della memoria nei processi creativi e dell’amore nei momenti difficili sono punti fermi, la resa di tutto ciò che è inespresso (e che agita i cuori di Nadia, dell’antiquario Weisz, del giovane Dov, dell’anziana Lotte) puntuale, l’enorme ambizione di sapere cosa resta dopo una catastrofe (sia essa individuale o collettiva, ed entrambe sono scandagliate) è appagata pienamente. E nelle pagine finali al lettore sarà svelato anche perché questo romanzo è stato intitolato La grande casa, con riferimento alla storia e alla tradizione ebraica. Note finali: c’è un refuso all’inizio di pagina 94, su cui bisognerebbe correre ai ripari nelle ristampe successive; la resa della prosa in italiano è ottima, merito di Federica Oddera, traduttrice di lungo corso, apprezzata da molte case editrici, che nel recente passato si è confrontata anche con testi di Auster, Divakaruni, Roy, Lahiri, Updike.