Magistrale Simona Dolce, accanto al lager il buio indicibile

Inge Brigitte, una dei cinque figli di Rudolf Höss, sanguinario capo del campo di concentramento di Auschwitz, è riuscita a cancellare da dove veniva e chi era. Fin quando un giornalista non la rintraccia quando ormai è vedova, ha ottant’anni, e ha vissuto a lungo dall’altra parte dell’oceano. È l’inizio di un ritorno al passato, di ricordi dell’abisso in cui è cresciuta, fra sensi di colpa, menzogna e incapacità d’accettarsi. A raccontare tutto, in modo magnetico e con una esemplare prova di scrittura è Simona Dolce, autrice de “Il vero nome di Rosamund Fischer”

Un romanzo di statura internazionale che, con maturità e abilità, si confronta con temi eterni: passato e memoria, identità e colpa, e menzogna, soprattutto la menzogna perché la narratrice inaffidabile a cui dà voce la palermitana Simona Dolce è un personaggio potentissimo, che cresce esponenzialmente con il passar dei capitoli.

Ricordare era una maledizione. A volte non distinguevo fra ciò che sognavo e ciò che vedevo.

Püppi e Vati, normali e spensierati

L’eco del film La zona d’interesse di Jonathan Glazer, tratto da un romanzo di Martin Amis, permetterà ai più di inquadrare tempi e luoghi, almeno parziali, del romanzo Il vero nome di Rosamund Fischer (379 pagine, 19,50 euro), pubblicato da Mondadori, e a cui Simona Dolce – tutt’altro che esordiente, con vari titoli, specie per ragazzi (ne abbiamo scritto qui), alle spalle – ha iniziato a pensare più di una decina d’anni fa. Rosamund Fischer è l’identità con cui per gran parte della vita si è celata agli occhi del mondo Inge Brigitte, una dei cinque figli di Rudolf Höss, gerarca a capo del lager di Auschwitz, fra i più sanguinari criminali della storia. A casa, però, casa che era una villetta adiacente al campo di concentramento, Inge Brigitte e il padre erano solo Püppi e Vati, i nomignoli con cui si vezzeggiavano a vicenda, in quello che sembrava essere il più ordinario dei luoghi, il più normale dei papà, la più spensierata delle figlie. Giusto qualche domanda di troppo, sulla presenza del filo spinato, ad esempio. Giusto qualche avventura pericolosa, giochi da ragazzi tra fratelli. Qualche dubbio, tenui presentimenti. Del resto il personale di servizio della casa è composto da macilenti e spettrali individui, alcuni prigionieri del lager. Poi l’infanzia di quella che si sarebbe ribattezzata Rosamund Fischer sarebbe filata via, liscia, placida, gioiosa.

Fanciulla ignara, preda braccata

Decenni e decenni, dopo, quando la vita è agli sgoccioli, quando il marito non c’è più (a lui prima delle nozze aveva confessato da dove arrivava e chi era), l’anziana donna che sarebbe stata ignara fanciulla – sotto un cielo di cenere, nel cuore dell’Europa criminale e della macchina insensata che ha condotto alla Shoah – viene braccata e scovata da un giornalista. Inizia così il libro di Simona Dolce, la cui lettura non riuscirete a mollare, e su cui tornerete, per rileggerne alcuni passaggi. Rosamund Fischer è la preda di qualcuno che ha deciso di stanarla dalla sua vita normale, dalle ambiguità del suo passato, quello sotto le luci dei riflettori (fuggita dalla Germania, è stata modella in Spagna per la casa di moda Balenciaga; aveva incontrato Cristóbal Balenciaga nel corso di una serata mondana, subito dopo essere stata insidiata da Léon Degrelle, «uno dei più grandi amici della Germania, il leader del movimento nazionalista belga») e quello avvolto dal mistero, in cui è una bimba forse senza gli strumenti per capire davvero. Dubbi e domande si affastellano nella mente della donna, pensieri dissepolti dagli angoli della coscienza, ricordi di incubi che forse incubi non sono mai stati. A ricevere quelle confessioni c’è il reporter James Pinter, «confessore inatteso».

Un percorso personale e letterario

Simona Dolce dopo lunghi studi e ricerche di documenti, ed è riuscita a entrare nella mente di una figlia, nel rapporto con il padre, certamente non un padre convenzionale, nella lunga fuga da un’infanzia all’apparenza perfetta, da una casa in cui la vita era scandita in ogni aspetto, ossessivamente, dalla madre, Mutz. Simona Dolce ha indagato, per anni, il male. E ne è uscita fuori in modo magistrale, trasformando il risultato di un percorso personale, oltre che letterario, in un libro ammaliante, per lunghi tratti magnetico, una prova esemplare di scrittura, in cui il rigore non annulla il piacere della lettura, in cui la prima persona narra ricordi scomodi e si ferma a pensare a quel che sembrava e non era. Minuziosa ma non pedante nelle descrizioni, profonda e mai noiosa nel riemergere, con gli occhi di Rosamund, dalle profondità dei ricordi, dall’incapacità di accettare la verità, Simona Dolce ha scritto un libro sorprendente solo per chi ancora non la conosce, in cui non condanna, non giustifica, non commisera una donna che ha attraversato un secolo con un un peso insostenibile sull’anima. Un romanzo che è un traguardo e una promessa per il futuro.

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