Numerosi segni, nelle scelte e soprattutto nella scrittura di Costanza DiQuattro, depongono a favore di una ormai evidente maturità, conquistata senza sgomitare e con delle prove generali di grande spessore, alla quale si accompagna – spesso, ma non sempre, ma in questo caso certamente sì – una solida capacità di governare fatti storici, per definizione insidiosi e per questo bisognosi di particolari cautele, ma anche di immaginare vicende non del tutto consuete ed altrettanto scottanti, come quella di un religioso siciliano del diciassettesimo secolo, che malgrado l’abito talare, non solo si guarda bene dall’adeguarsi al suo stato, ma fa di tutto per non celare la sua particolare predilezione per le cose belle della vita terrena: tra le quali rientra certamente la possibilità di amare una donna e di attendere da questa un figlio.

Disobbedire

Bernardo, questo è il suo nome, nato L’Arestia Corbara, è un nobile destinato sin dalla nascita a prendere i voti, perché gemello di Eligio, ma non primogenito, e che probabilmente per allontanare da sé stesso questo destino generoso solo nei confronti del più grande dei due, sin dai primi anni della sua vita ama utilizzare gli elementi della natura per “darsi risposte calibrate a domande per lo più sbagliate”, coltivando, per esempio, il gusto per la divinazione, pratica in vero non del tutto coerente con una educazione religiosa “seria, di stampo agostiniano” alla quale viene introdotto dalla spietata genitrice. Questa capacità di vedere oltre il giogo fa sì che Bernardo, pur non sottraendosi a quella via ormai tracciata sin dai suoi primi vagiti, riesca in poco tempo a fare “della disobbedienza la regola della sua vita”.

Diventato parroco di una chiesa di Ibla, che la madre e padre Fernando, una sorta di Rasputin ante litteram, ritengono non degna del suo lignaggio, Bernardo celebra ogni giorno la Santa Messa, mal seguito col suo latino cantilenante da Gasparino il chierichetto e da uno sparuto crocchio di negletti, unici frequentatori, più per inerzia che per vero attaccamento, di una chiesa evitata con metodo da tutta la comunità.

Amicizia e amore

“U ciumararu”, la “Mecia” e due zitelle, alle quali la vita non ha risparmiato niente: sono loro che seguono stancamente la messa dell’Itria celebrata da un uomo che ogni volta si ritiene come “condotto al patibolo” e saranno loro a regalare al momento opportuno a Bernardo uomo, prima che parroco, “un carico d’umanità sconosciuto”.

E poi ci sono padre Costante e Tresina, le due figure che nel romanzo impersonano rispettivamente l’amicizia sincera senza secondi fini (la philìa dei greci, ci ricordava qualche giorno fa il prof. Roberto Vecchioni alla TV), che ti sostiene senza giudicare ma che sa anche indicarti la via maestra e la tenerezza di una ragazza vittima di violenza che è “un’anima pura che ha sofferto e non ha avuto nulla da questa vita se non l’amore che – dice Bernardo al fratello – cerco di darle e il figlio che porta in grembo”.

Su di loro si staglia, e per tante ragioni, Eligio, fratello maggiore di Bernardo e suo punto di riferimento, la cui capacità di sostenere quel  “povero” fratello sembra fare a pugni con la menomazione che lo costringe all’immobilità a letto. Sarà lui, così come Federico nei confronti di Antonio Fusco in Arrocco siciliano, ad insegnare molto a Bernardo, pur restando sempre chiuso in una stanza e sarà lui a fornirgli le coordinate di un cammino esistenziale che a tratti sembra poterlo sopraffare.

Distruzione, morte e miseria

Ma dicevamo della colpa e del peccato mortale degno di una punizione esemplare, che per essere tale non poteva certo essere firmata dalla fallace mano dell’uomo: è quella che ai più appare il tremendo terremoto che nel gennaio del 1693 distrusse il Val di Noto, seminando morte e miseria e cambiando persino i connotati ad un territorio ben più vasto della sola Ibla. Nel romanzo, la catastrofe viene vista da quella comunità come la naturale conseguenza dei peccati di Bernardo e si abbatte con pervicace violenza sul popolo inerme, instillando anche e prima di tutto in lui, Bernardo, il dubbio della reazione divina ai suoi tanti peccati, segno evidente di un allontanamento che non può che essere definitivo, come quello di Adamo dall’Eden.

È qui, in questa sorta di prologo della fine, che il pensiero di Agostino d’Ippona, pur non riuscendo a lenire del tutto  il dolore che lo opprime, riesce a fornirgli alcune risposte, comunque, di grande conforto. «Agostino parla a voi: cercate di ascoltarlo. Un padre che rimprovera non ha mai smesso di amare», gli ricorda l’amico Costante, in uno dei passi più emozionanti di una vicenda terrena che Costanza DiQuattro ci regala con il suo L’ira di Dio (272 pagine, 19 euro), per Baldini+Castoldi, per noi un ulteriore strumento di conoscenza dell’amicizia e dell’amore e, dunque, dell’essere umano, spesso stretto tra il dubbio ed il desiderio di rinascita e pur sempre capace di fare del passato il modo migliore per capire prima e meglio il nuovo corso.