È la letteratura, bellezza! La semplicità di Roberto Calasso

In “Opera senza nome”, suo nuovo libro postumo, Roberto Calasso ripercorre – al tempo stesso con umiltà e con ambizione – il ciclo degli undici libri, tra sacro e sapere, tra certezze e dubbi, pubblicati in quasi quarant’anni. Imbriglia esegeti, critici, avversari e tutti coloro che l’hanno ingabbiato in un culto inaccessibile. Dimostrando ancora una volta di non essere facile, ma semplice come gli scrittori più grandi

È la letteratura, bellezza! Lo sostiene qualcuno non facile, ma semplice, semplice come tutti i grandi. L’ennesima lezione d’autore di Roberto Calasso arriva postuma, al sesto titolo post mortem, Opera senza nome (160 pagine, 18 euro), negli ultimi due anni, e va in direzione ostinata e contraria rispetto a chi ha ingabbiato l’editore scrittore di Adelphi in un culto inaccessibile, indicibile, enigmatico, se non addirittura segreto E, invece, Roberto Calasso (qui un suo ritratto) spiazza ancora e con un ghigno beffardo, da dovunque si trovi adesso, imbriglia esegeti, critici, avversari e fa a pezzi le classificazioni più tediose: a più riprese ci si chiede se i suoi libri siano testi narrativi o saggi? Lui ha la soluzione: «Una parola che appiana tutto: letteratura. Che cosa sia letteratura è meglio non definire con troppa insistenza. Forse non è più che una vibrazione, avvertibile nei testi più disparati: racconti, versi, ma anche analisi serrate, aforismi, trattazioni». E poi asfalta le formulette sterili, le etichette come autofiction e non solo: «c’è sempre qualche critico a cui, a suo parere, non la si fa, e ha inteso questo metodo come un’astuzia post-moderna (ahi questa parola, vacua e anche superflua, in quanto il Moderno può accoglierla tranquillamente sotto le sue ali)…». E, ancora, smentisce «tutti i custodi della ragionevolezza»: «progetto o piano non c’è mai stato», garantisce a proposito del suo ciclo composto da undici libri.

Un’armonia costruita piano

Proprio per far luce sull’impenetrabile corpus dei suoi libri più noti (da La rovina di Kasch del 1983 a La tavoletta dei destini del 2020) che hanno finito per comporre un affresco impareggiabile, difficile da eguagliare, Roberto Calasso ha azzardato il rischio di provare a spiegare da sé il lavoro di una vita in Opera senza nome, continuando a scrivere fino all’ultimo, anche quando la malattia fatale avanzava. Illumina rimandi e collegamenti fra le sue opere (dedicate alla Bibbia, a Kafka, a Baudelaire, ai Veda…), che pure sono autosufficienti, svela spaccati autobiografici e insiste sulla natura casuale di una costruzione infine armoniosa, ma cresciuta pezzo dopo pezzo. Sono anomale istruzioni per l’uso alla produzione di Roberto Calasso che fanno pensare automaticamente a un prezioso labirinto di carta, a un testamento per tutti i lettori.

Primavoltità

L’universo del sapere, nelle mani di Roberto Calasso, è più un’indagine sul passato che su presente, ma profuma di futuro, di resistenza al tempo. Il sacro – che naturalmente non chiama in causa pedissequamente il religioso – il sacrificio e la conoscenza sono solo alcuni dei motivi ricorrenti delle sue opere, in cui si sovrappongono fisica quantistica e mitologia classica. Mai senza certezze, ma coltivando il dubbio e l’intima convinzione che l’autore stesso sappia solo «certe cose» di quanto ha scritto. Spiegarsi, ragionare sulle proprie creature di carta, provare a condividerle intimamente non è spocchia, ma umiltà, che non significa non pensare in grande. C’è allo stesso tempo ambizione in Roberto Calasso, che mira alla “primavoltità” : «Inventare qualcosa che prima non esistesse […] ma che accogliesse occasionalmente frammenti di forme esistenti».

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